Asante sana all’autrice di un reportage ricco di passione, entusiasmo e amore per i viaggi: un articolo da leggere tutto d’un fiato.
Come accadde a Karen Blixen quasi un secolo fa, quando nel suo “La mia Africa” cercava di raccontare con parole l’indicibile fascino di questa terra, anch’io oggi provo a dare voce a ciò che ho vissuto nell’agosto 2025. Il Kenya non è un luogo che si descrive: si vive, si respira, ti si imprime dentro. Eppure ci provo, consapevole che sarà sempre una testimonianza parziale, perché l’Africa non si lascia racchiudere in un testo: ti entra nel cuore e ci rimane.
Il viaggio è iniziato a Nairobi, capitale di contrasti brucianti. I grattacieli delle multinazionali si ergono accanto a baraccopoli di lamiera e legni di recupero, il traffico segue logiche invisibili agli occhi occidentali: minibus sovraccarichi di persone e pacchi, motorini che trasportano intere famiglie, camion stracarichi che si incrociano su strade che diventano improvvisate autostrade a tre corsie. Per segnalare una buca o un’interruzione basta qualche ramo o una pietra. I supermercati, blindati con metal detector e guardie armate, convivono con i mercati di strada, dove la vita pulsa tra spezie, odori e voci che si mescolano in un caos vitale. Un caos che però nasconde un pragmatismo sorprendente: alle casse non si svuotano i cesti, si rovescia tutto direttamente sul banco. Nairobi ti spiazza, ti confonde, ma è il battito del Paese che comincia qui.
Oltre la capitale, verso il nord di Isiolo, l’Africa cambia volto: più ruvida, più autentica, capace di rivelare un’anima ancora più profonda. Ed è lì che comprendi che il cuore del Kenya non sono le sue città, ma le persone. Ogni incontro si trasforma in occasione di scambio: un autista che racconta della sua famiglia, un artigiano fiero del suo lavoro, una famiglia che ci ha accolto offrendoci un tè.
In Kenya sono lingue ufficiali l’inglese e lo swahili. Il keniano medio può parlare la propria lingua madre (ce ne sono più di 68 in totale), il swahili, e l’inglese. L’inglese è la lingua usata per il commercio e l’amministrazione, mentre lo swahili è una lingua nazionale e di comunicazione tra i diversi gruppi etnici.
Imparare poche parole in swahili ha aperto sorrisi immediati: Jambo (ciao), Asante sana (grazie mille), Hakuna matata (non preoccuparti), Habari? (come stai?). Parole semplici, ma cariche di senso, che diventano chiavi per abbattere distanze e stabilire complicità.
E a questo proposito vorrei ricordare il loro approccio pragmatico ai problemi, che iniziava con un HAKUNA MATATA (locuzione swahili estremamente comune che significa “non ci sono problemi”) e continuava con la presenza di svariati uomini riuniti davanti al problema cercando soluzioni temporanee per andare avanti e toglierci da situazioni di emergenza visto che il pulmino in questione ci ha lasciati per strada più di una volta.
Proprio grazie alle conversazioni quotidiane, con autisti, personale degli hotel, abitanti dei villaggi, lavoratori di micro botteghe, ho capito quanto l’istruzione sia considerata un bene prezioso e una speranza concreta di futuro.
Quasi ogni soldo guadagnato viene destinato alla scuola dei figli. Ma accanto a questa aspirazione, la modernità si infiltra con prepotenza: i cellulari connessi ai social mostrano immagini di un mondo dorato, di lusso, potere e successo. È un primo mondo idealizzato, visto solo attraverso uno schermo, e per questo percepito come perfetto. In realtà, grazie agli scambi culturali e ai racconti reciproci, ci siamo accorti che spesso siamo noi a vivere prigionieri di un capitalismo che promette felicità e consegna infelicità. Abbiamo raccontato di un Occidente dove soldi e potere non bastano, dove le persone, pur avendo tutto, sono spesso sole e tristi, dove esistono file da psicologi e psicoterapeuti – figure che in molti villaggi del Kenya non conoscono neppure. È stato un momento rivelatore: loro ci hanno mostrato la forza della resilienza, noi abbiamo offerto uno sguardo su un mondo che dall’esterno sembra perfetto, ma che nasconde fragilità profonde.
Incontrare i Samburu e i Masai è stato come entrare in un tempo sospeso. Le loro capanne di fango, sterco e pelli bovine, o di rami e lamiera, raccontano un’architettura essenziale, pensata solo per resistere e proteggere. I Samburu, nomadi e poligami, segnalano la presenza del marito lasciando la lancia fuori dalla capanna; anche la loro alimentazione si basa soprattutto su latte e sangue di capra, fonte di vita e forza. Ballare con loro, partecipare ai canti, osservare gli occhi profondi e innocenti dei bambini: sono momenti che ti si imprimono addosso e che ti ricordano quanto immenso sia il divario con il nostro mondo. Le donne Samburu dedicano ore a realizzare braccialetti e complesse collane di perline, piccoli capolavori di colore e simbolismo che raccontano storie, legami e tradizioni del loro popolo.
I Masai, considerati spesso nomadi o semi-nomadi, sono in realtà tradizionalmente allevatori transumanti e oggi spesso addirittura stanziali (soprattutto in Kenya). La transizione a uno stile di vita stanziale si accompagna a quella dall’allevamento all’agricoltura come fonte primaria di sostentamento.
I Masai, con i loro abiti rossi e le danze saltate, tramandano riti antichi: per diventare uomini, un tempo, era necessario vivere mesi lontano dal villaggio, cacciare un leone e tuttora bevono sangue di capra e zuppa di ossa. Si lavano nel fiume una volta a settimana (si meravigliavano che noi ci lavassimo quotidianamente e i cambiamo dí vestiti spesso), vestono tessuti dai colori sgargianti, accendono il fuoco strofinando rami di acacia, olivo e sterco d’asino.
Per l’igiene quotidiana, i Masai usano spazzolini intagliati a mano dal legno dell’elephant tree, un gesto semplice ma profondamente radicato nella loro cultura e nella conoscenza della natura che li circonda.
Un giorno abbiamo improvvisato una visita a una partita di calcio in un villaggio. Il campo era poco più che un terreno polveroso, ma intorno centinaia di persone tifavano con entusiasmo, trasformando la partita in un rito collettivo. I bambini correvano incontro salutando con curiosità “l’uomo bianco”: anche questo è Kenya, comunità, condivisione, gioia semplice che diventa festa.
Un’esperienza indimenticabile è stata anche la partecipazione a un matrimonio tradizionale nei giardini del Museo di Karen Blixen. Oltre quattrocento invitati, abiti sgargianti e colorati, danze e canti che trasformavano quella festa in una celebrazione autentica della cultura kenyota, amplificata dal contesto simbolico del luogo in cui la scrittrice danese rese immortale questo Paese.
Tutte esperienze che ti fanno percepire quanto profondo sia il contrasto con la nostra realtà e ti ricordano quanto siamo fortunati e privilegiati nel nostro mondo, e quanto preziosa sia ogni piccola cosa che diamo per scontata!
E poi la natura. Il Kenya è soprattutto questo: savane che si perdono a vista d’occhio, cieli infiniti, tramonti che incendiano l’orizzonte. Il primo incontro con una zebra libera a pochi metri è stato un brivido difficile da descrivere. Poi le giraffe, eleganti e placide, gli elefanti maestosi che si muovono a rallentatore, le gazzelle che fuggono leggere come se danzassero sull’erba dorata, e lo sguardo di leoni e leonesse che ti fissano intensamente, ricordandoti che l’intruso sei tu.
Ma il Kenya è anche la patria dei Big Five: leoni, leopardi, elefanti, bufali e rinoceronti, animali simbolo di forza, agilità e maestosità, che qui abbiamo avuto la fortuna di vedere tutti. Il leone, re indiscusso della savana, al centro del suo branco, con le leonesse e i cuccioli che proteggono e guidano. Vedere il branco rilassato sotto acacie, coordinato e potente, lascia senza fiato: una tenerezza incredibile e al tempo stesso un rispetto assoluto.
Il Masai Mara ci ha regalato anche scene crude e potenti: un coccodrillo che divorava una zebra nel fiume, leonesse che sbranavano un animale di grande taglia ormai quasi irriconoscibile, circondate da marabù, avvoltoi e sciacalli che chiedevano la loro parte. Ogni scena ti ricorda che la savana è un contesto di leggi di sopravvivenza, proprio come nei documentari, ma in carne e ossa, davanti ai tuoi occhi.
Ogni safari era diverso, ogni incontro un mix di bellezza, terrore e meraviglia: branchi di leonesse con i cuccioli, rinoceronti che pascolano tranquilli, bufali imponenti che ti fissano senza esitazione, ghepardi che attraversano la pianura con velocità incredibile e leopardi nascosti tra gli alberi. È un’esperienza intensa, dove la forza della natura e la fragilità della vita si intrecciano in ogni passo. Ecco perché vivere la savana è così unico e coinvolgente: non è solo uno spettacolo, è la vita nella sua forma più pura.
Alla fine capisci che il Kenya non è solo un luogo da visitare: è un’esperienza che ti obbliga a guardarti dentro, a vivere senza distrazioni, senza internet, senza filtri. Privarsi di una SIM locale ha significato cogliere ogni dettaglio: il rosso della terra, i tramonti infuocati, i balli tribali, i sorrisi che non si dimenticano.
Il Kenya è contrasti e autenticità, resilienza e speranza, natura potente e umanità generosa. Non è un viaggio comodo, ma è un viaggio che ti cambia. Sono tornata a casa con nostalgia e gratitudine, con la certezza che i leoni, i bambini, i Masai e i Samburu, i tramonti e i cieli stellati resteranno sempre con me. Perché il Kenya non si dimentica. Il Kenya resta dentro, per sempre.
Per chi vuole immergersi ancora di più in questa esperienza, consiglio di guardare i video dei migliori momenti, di paesaggi, animali e persone, facendo vivere la magia del Kenya ancora più intensamente: li trovate qui sotto, basta cliccare sul link per vivere emozioni uniche.